Nel marzo 2022 la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del reato di diffamazione a mezzo Social, con una recente sentenza in cui si approfondisce il perimetro applicativo del delitto.
Si parte dalla considerazione della piattaforma social quale “luogo” di pubblico dominio, in quanto la bacheca del social network può potenzialmente raggiungere un numero elevato di persone, e dunque strumento con il quale le offese vengono ascoltate da un pubblico.
Appurato ciò, l’elemento di forte impatto che emerge dalla pronuncia della Corte è la realizzazione di questo delitto (art. 595 Codice Penale) anche nei casi in cui nelle dichiarazioni offensive sulle piattaforme social (post Facebook) non sia indicati i nomi delle persone alle quali si riferiscono.
Ciò in quanto, secondo l’interpretazione dei Giudici, ai fini della configurazione del reato è sufficiente che la persona offesa sia individuabile secondo altri riferimenti, anche laddove non ne sia esplicitato il nome, e che perciò le offese siano riconducibili a un determinato soggetto, seppur da parte di un numero limitato di persone, attraverso elementi della situazione specifica, e cioè in base al tipo di offesa, alle circostanze narrate, oggettive e soggettive, ai tempi e alle caratteristiche personali evocate.
In questo senso si fa riferimento a eventuali riferimenti ad un contesto territoriale limitato (una certa cittadina, un preciso luogo) o ad ulteriori elementi di contorno identificativi di una persona o di un gruppo di persone (una categoria di lavoratori o di persone).
Ecco che accompagnando l’offesa (esternata pubblicamente) con tali tipi di indicazioni, la stessa offesa assumerà pari valore rispetto a quella effettuata con esplicitazione di nomi e cognomi.
Su simili fatti la Corte di Cassazione si era già espressa in una precedente sentenza del 2021, dopo aver esaminato alcune dichiarazioni ingiuriose esposte in pubblico (post Facebook), nello specifico, circoscritte ad un luogo preciso (uno stabilimento balneare) frequentato abitualmente da una persona appartenente a una determinata categoria lavorativa (i carabinieri della zona) e con indicazione anche di un lasso temporale (il turno di servizio). Si trattava quindi di elementi che rendevano facilmente desumibile il destinatario delle dichiarazioni denigratorie, seppur non venisse fatto il suo nome.
Tali pronunce risultano di forte interesse in quanto forniscono una risposta importante ad un fenomeno in forte crescita e necessario di tutela: sempre più spesso, infatti, ci si trova coinvolti contro la propria volontà, in maniera subdola e grossolanamente nascosta, in conversazioni pubbliche o esternazioni unilaterali di profili social altrui, che però, considerato il contesto e la numerosa utenza coinvolta, restano in forte e costante esposizione creando un danno all’onore personale.
Ha fatto molto discutere la recente sentenza della Cassazione sui passi carrabili cosiddetti ‘a raso’. Nel luglio 2022 la Corte si è espressa in relazione ad un caso specifico i cui fatti sono avvenuti a Comacchio, in provincia di Ferrara.
La vicenda prende il via a seguito di un avviso di accertamento relativo al mancato pagamento del Canone per l’Occupazione di Spazi ed Aree Pubbliche negli anni 2014-2018 da parte del Comune di Comacchio al residente di un’abitazione privata con accesso “a raso”, ossia con accesso diretto nella pubblica via.
Il cittadino dapprima si rivolgeva al Tribunale di Ferrara affinchè si stabilisse il mancato diritto in capo al Comune del relativo canone, a fronte dell’assenza a monte del presupposto di fatto, ovvero l’occupazione. Tale esito processuale, però, necessitava che il Giudice di primo grado disapplicasse il regolamento comunale, il quale prevede che siano soggetti al pagamento del canone COSAP anche coloro i quali abbiano accesso alla pubblica via senza occuparla minimamente.
Il tribunale respingeva la richiesta del cittadino, ritenendo il regolamento legittimo e dichiarandosi peraltro incompetente a decidere in merito, ma la persona ha impugnato la sentenza e adito la Corte di Cassazione, la quale ha riconosciuto in pieno i suoi diritti cassando la precedente pronuncia.
Nello specifico la Cassazione ha affermato a chiare lettere che il presupposto di fatto previsto per l’applicazione del canone COSAP sia quello dell’occupazione del suolo pubblico, e che tale occupazione non possa essere estesa arbitrariamente da alcun regolamento oltre i confini del suo significato letterale.
Di ciò si trova conferma - evidenzia la Corte - nelle plurime fonti normative, tra cui in numerose sentenze e nel d.lgs. n. 507 del 1993, che disciplina l’applicazione della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (TOSAP) con identici presupposti del COSAP. Di conseguenza, la norma comunale risultava lesiva delle norme primarie citate e doveva essere immediatamente disapplicata dal Tribunale.
Per queste ragioni la Cassazione ha giudicato che il canone Cosap non fosse dovuto al cittadino, in quanto con passo carrabile “a raso” non si trovava in una delle condizioni legittimanti tale pagamento (ovvero le condizioni di “occupazione”: interruzione di marciapiedi, manufatti di accesso alla pubblica via o qualsivoglia sottrazione di suolo pubblico).
Quella appena illustrata si ritiene una sentenza di particolare interesse in quanto vi è la possibilità, laddove ci si trovi nella stessa situazione, di intraprendere la medesima via.
Si commentano qui, a scopo informativo, alcune sentenze d'interesse pubblico